1 marzo 2016
La comunicazione del rischio, un fallimento: il caso glifosate.
Chi sono gli esperti più autorevoli? Pochi giorni fa il Corriere della Sera ha riportato un articolo a piena pagina nel quale viene ribadita la pericolosità del Glifosate. A questo erbicida, che viene utilizzato ormai dal 1977 in Italia, l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC) imputa una tossicità legata al suo potenziale cancerogeno dimenticando, nelle sue valutazioni, un parametro di estrema rilevanza quale l’esposizione. Infatti una sostanza può essere estremamente tossica, ma se ad essa non siamo esposti il rischio è pari a zero. Questo rischio diventa quantificabile quando la dose cresce fino a superare una soglia tale da comportare un reale effetto avverso, che col crescere della dose diventa un effetto tossico.
Sulla base delle sperimentazioni effettuate sul campo, ad ogni sostanza ad attività fitoiatrica la Commissione Europea assegna dei livelli massimi che possono essere presenti al momento del raccolto. Queste soglie, definite Maximum Residue Level (MRL) rappresentano dei limiti legali e non tossicologici, perché gli MRL sono bassi e assai lontani da dosi in grado di produrre un qualsiasi effetto biologico.
Dispiace leggere articoli che incutono nel consumatore timori irragionevoli e che contribuiscono ad instillare nell’opinione pubblica il dubbio rispetto a pareri scientifici autorevoli. Vi sono ricercatori che operano da anni nella valutazione del rischio presso organismi riconosciuti, quali l’istituto federale tedesco per la valutazione del rischio (Bfr), l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA) e l’Environmental Protection Agency (USA-EPA) e il cui parere dovrebbe essere preso seriamente in considerazione. È lecito chiedersi se i giornalisti che si occupano di comunicare il rischio, invece di provocare dubbi e sospetti, non farebbero meglio ad informarsi da fonti autorevoli e corrette. Abbiamo bisogno di messaggi chiari, legati all’evidenza scientifica. Se il glifosate fosse tossico come abbiamo letto in questi giorni, si sarebbero dovuti accertare già da tempo effetti tossici, o per lo meno effetti avversi, derivanti dal pericolo di un erbicida a cui siamo esposti da quasi 40 anni nei limiti di legge (come già detto, estremamente conservativi da un punto di vista della sicurezza del consumatore). Se effettivamente l’uso di questo erbicida (fin dal 1977) rappresentasse un reale problema di salute, avrebbe dovuto provocare effetti assai evidenti e non soltanto sospettati.
Chi sono gli esperti più autorevoli? Pochi giorni fa il Corriere della Sera ha riportato un articolo a piena pagina nel quale viene ribadita la pericolosità del Glifosate. A questo erbicida, che viene utilizzato ormai dal 1977 in Italia, l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC) imputa una tossicità legata al suo potenziale cancerogeno dimenticando, nelle sue valutazioni, un parametro di estrema rilevanza quale l’esposizione. Infatti una sostanza può essere estremamente tossica, ma se ad essa non siamo esposti il rischio è pari a zero. Questo rischio diventa quantificabile quando la dose cresce fino a superare una soglia tale da comportare un reale effetto avverso, che col crescere della dose diventa un effetto tossico.
Sulla base delle sperimentazioni effettuate sul campo, ad ogni sostanza ad attività fitoiatrica la Commissione Europea assegna dei livelli massimi che possono essere presenti al momento del raccolto. Queste soglie, definite Maximum Residue Level (MRL) rappresentano dei limiti legali e non tossicologici, perché gli MRL sono bassi e assai lontani da dosi in grado di produrre un qualsiasi effetto biologico.
Dispiace leggere articoli che incutono nel consumatore timori irragionevoli e che contribuiscono ad instillare nell’opinione pubblica il dubbio rispetto a pareri scientifici autorevoli. Vi sono ricercatori che operano da anni nella valutazione del rischio presso organismi riconosciuti, quali l’istituto federale tedesco per la valutazione del rischio (Bfr), l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA) e l’Environmental Protection Agency (USA-EPA) e il cui parere dovrebbe essere preso seriamente in considerazione. È lecito chiedersi se i giornalisti che si occupano di comunicare il rischio, invece di provocare dubbi e sospetti, non farebbero meglio ad informarsi da fonti autorevoli e corrette. Abbiamo bisogno di messaggi chiari, legati all’evidenza scientifica. Se il glifosate fosse tossico come abbiamo letto in questi giorni, si sarebbero dovuti accertare già da tempo effetti tossici, o per lo meno effetti avversi, derivanti dal pericolo di un erbicida a cui siamo esposti da quasi 40 anni nei limiti di legge (come già detto, estremamente conservativi da un punto di vista della sicurezza del consumatore). Se effettivamente l’uso di questo erbicida (fin dal 1977) rappresentasse un reale problema di salute, avrebbe dovuto provocare effetti assai evidenti e non soltanto sospettati.